Il presepe - Famiglia Galiano

Vai ai contenuti

Il presepe

Rubriche > Presepi
Il Presepe

 
Il presepe fatto in casa richiama alla mente una serie di emozioni, specialmente se sei tu ad allestirlo. Per prima cosa occorre la predisposizione d’animo, entrare in sintonia con un evento che coinvolge tutta l’anima: l’attesa di un bambino che verrà a nascere in casa tua, nel tuo cuore, nella tua famiglia, un bambino che porta con sé tenerezza, amore e quindi riscatto. Una nascita che, per intenderci, non è reale. È avvenuta una sola volta, oltre 2000 anni fa. Ma è un evento che si vuole ricordare, almeno per i cristiani, in quanto incastonato nel calendario liturgico e che fa parte del nostro cammino di fede. Altra valenza assume il Natale laico con le luminarie, l’albero illuminato e tutte le varianti che il consumismo odierno propone.

 
Preparare il presepe significa rifarsi alla tradizione, anche se sei invitato a dare un tocco personale. E allora avverti la necessità di personalizzarlo. Anche se disponi degli stessi pupi, sei stimolato alla fantasia, a rinnovare la scenografia, magari nell’intento di stupire.

 
Oggi, analizzando i gruppi dei pupi che animano il presepe, vedi raramente i classici figurini del Settecento napoletano. Quelli troppo elaborati, destinati alle famiglie facoltose li vedi nei presepi di Napoli, diventati ormai pezzi da museo e ricercati come oggetti d’antiquariato, oppure esposti nelle vetrine delle mostre-cult - quasi a proteggerli da mani avide -; quelli invece più modesti ed economici, destinati ai presepi della gente semplice, vanno scomparendo e sostituiti da pupi di materiale sintetico.

 
Oggi vanno di moda i pupi dal formato più grande, di cartapesta dai caratteristici vestiti baroccheggianti che riempiono, già in pochi, lo spazio utile alla rappresentazione natalizia.

 
Gli artigiani più aggiornati ti propongono figurini noti alla cronaca mondana del momento: politici, Barbie, Ken, gay o lesbiche…; tutti personaggi lontani anni luce dal popolo palestinese.

 
Ma se non ti vuoi adeguare a queste mode, ripieghi facilmente in un’altra soluzione rapida: metti carta roccia bell’e pronta, muschio sintetico, cascatella monoblocco, grotta prefabbricata, magari con tutto il gruppo della Natività, pupi e pecorelle di plastica dall’intatta fisionomia e colore. Il tutto poi lo riponi nello scatolo per gli anni successivi.

 
Il presepe costruito così non mi emoziona.

 
Altro che presepe vivente di Greccio ideato da Francesco d’Assisi, altro che presepe degli anni Cinquanta costruito da mio nonno!

 
Eppure si è portati a fare così. Non è vero che quando riapri lo scatolo i pupi si frantumano, se non sei accorto? Sicché di anno in anno ti ritrovi con pupi che hai scartato perché ormai mutilati, chi senza braccio, senza gamba o testa e che mettono in bella vista la colla marrone di pesce in voga prima degli anni Cinquanta; quelle donne di creta che, se capovolte, ti mostrano lunghe gonne svuotate (queste erano le caratteristiche dei pupi leccesi) e staccate dalla base di cartone spalmato di sabbia.

 
È come se i segni della tradizione si lasciano andare, ti lascino. E tu li lasci. E ti obbligano a rinnovarti.

 
Tu che mi leggi, torna con me ad un tempo non molto lontano (1954) ed assisti ai preparativi del presepe costruito in Oria, in via Camillo Monaco n. 4.

 
Nonno Peppino che io frequentavo sino a 11 anni – morì nel 1956 - e che rispetto ai miei cugini ho conosciuto di più perché ospite con la mia famiglia nella sua casa di via Camillo Monaco n. 4, era abile e animato da tanta passione nell’allestire il presepe.

 
Vigile urbano ormai in pensione dal 1949, metteva in atto tutta la sua inventiva, molto apprezzata dai parenti e amici anche in quella occasione.

 
Suo padre Angelo e lo zio Salvatore, entrambi falegnami, gli avevano trasmesso in tenera età qualche esperienza in merito. Nella fase preparatoria del presepe, ma anche dei pupi siciliani, coinvolgeva pure me, per quello che potevo.

 
Utilizzava un vecchio tavolo a cui aveva praticato un foro sul lato destro: lì avrebbe posizionato un piatto di zinco preparato dallo stagnino per crearvi una fontana. L’abile artigiano aveva saldato due coni, diametralmente opposti alla base tali da avere in entrata ed in uscita dei tubicini per l’alimentazione dell’acqua. Quest’ultima partiva dal vecchio clistere in vetro nascosto in alto, dietro il nutrito fogliame dei pini, per zampillare nel piatto. Bastava togliere lo stuzzicadenti che ostruiva il becco della fontana. L’acqua, poi, confluiva tramite il cono di uscita nel secchio di rame nascosto sotto il tavolo.

 
Il lavoro preparatorio continuava con i cepponi di vite offerti da qualche conoscente, divelti perché vecchi ed infruttuosi. Venivano bloccati al tavolo con i chiodi, alcuni dei quali recuperati da lui da legni in disuso e da me poi raddrizzati col martello, così come mi aveva insegnato, sulla vecchia soglia in pietra di un finestrone – tipico esempio di riciclo trasmessomi!

 
Messi poi alcuni listelli di legno qua e là per creare le stradine, veniva la volta dei fogli di giornale che, accartocciati, allungati e messi intorno ai cepponi per rivestirli, venivano fissati con la colla di farina o con lo spago. Dopo questa fase che durava più di qualche giorno, procedeva a spruzzarli con la pompa del flit dopo aver messo in fasi successive i colori a polvere sciolti in acqua, il verde, il giallo, il marrone.

 
Poi era la volta del muschio, quello vero, della cipuddazza (una pianta nata da un bulbo che alligna nel carparo dorato e il raro terriccio delle colline oritane e che si sviluppa con foglie turgide e larghe di un bel verde intenso), delle lampadine che lui aveva provveduto a colorare, del fondale che arricchiva con rametti di mortella, di pino a cui venivano appesi mandarini: questa commistione di profumi inebrianti si protraeva per giorni e giorni.

 
Sistemava i pupi prelevati con garbo dalla cassa di legno. C’era sempre da restaurare qualcuno, usando la colla di pesce che compravo a fogli e che lui scioglieva in una scodella sul fuoco.

 
Riempiva d’acqua il cilindro del clistere, poneva davanti alla grotta un bicchiere d’acqua con sopra uno strato d’olio e lo stoppino da accendere la sera di Natale e tutte le sere del periodo natalizio, prima di recitare il rosario; mascherava le fiancate del tavolo con un vecchio lenzuolo o tovaglia.

 
Da ultimo preparava una sorpresa per le mani leste di qualche curioso che volesse toccare il muschio fresco e umidiccio, col rischio di far cadere qualche pupo: collegato ad una spina vi era un cavo elettrico che terminava sullo strato erboso: la scossa era assicurata per chi avesse voluto accarezzare l’erba umidiccia!

 
Il presepe era pronto. E per il pomeriggio della vigilia erano pronti pure i dolci natalizi preparati dalla mamma Franca e la nonna Fedela.

 
Il momento più bello ed emozionante era quando si decideva di far nascere il Bambino: il più piccolo della famiglia reggeva la statuina nell’ovatta, il corteo dei famigliari partiva dalla stanza più lontana cantando Tu scendi dalle stelle, il nonno accompagnava il canto con l’organetto (un Settimio Soprani di Castelfidardo); giunti davanti al presepe il Bambinello veniva collocato nella mangiatoria e la fiamma votiva veniva accesa.

 
Seguiva la preghiera comunitaria e le poesie dei bambini. Spesso sopraggiungeva qualche gruppo di musicanti Li sueni (piccole comitive di suonatori che andavano per i presepi e che allietavano la serata con versetti briosi recitati nella lingua dialettale; ad essi veniva offerto rosolio o vino o alcuni spiccioli).

 
Torniamo agli anni più recenti.

 
Non essendoci più mio padre Pasquale che fino al 1971 con noi aveva continuato in quella casa a costruire il presepe con la stessa procedura, ora, molti di noi, nipoti ed affini, addobbano il presepe nelle proprie case ma con materiali più sofisticati e tecniche diverse e forse con altri stati d’animo…

 
C’è chi, usando ancora qualche pupo di creta, ricrea l’atmosfera magica con case orientali, con case di vetro dipinto, con facciate di chiese del proprio paese, mostrando un messaggio natalizio con pagine tratte dalla Bibbia e dai Vangeli, oppure evidenziando (nel presepe del 2019) quattro tipologie di caseggiati: quello più in alto tipico dell’alta nobiltà, a scendere, quello della borghesia, più giù, quello dal ceto medio, più in basso, semplici case e grotte della povera gente in cui ha inserito la Natività. E questo parente va segnalato. Si chiama Elio, figlio di Cosimicchio (fratello a nonno Peppino), risiede a Brindisi, ex docente di lettere e filosofia, esperto psicologo.  I vecchi presepi sono richiesti da amici. Egli li regala ed è ben disposto a rimettersi in gioco ogni anno, nel suo laboratorio privato, mettendo a frutto fantasia e attitudini manipolative innate, retaggio di esperienze artigianali di suoi ascendenti.

 
Va segnalato pure un altro parente. A Oria Luciana, mia sorella, ha imparato tante cose dal nonno e da papà: ha conservato il gusto nel curare i particolari, nel dotare il presepe di numerosi personaggi mossi dal meccano, nell’assemblare il tutto con grande equilibrio, ordine ed inventiva scenografica: la sua abilità negli anni le è stata riconosciuta da esperti, difatti nel 2005 le è stato conferito il primo premio con una coppa ricordo.

 
Il suo ultimo presepe del 2015 è rimasto ancora intatto nella casa paterna. Purtroppo lei ci ha lasciati prematuramente e, per l’alto significato degli oggetti usati, abbiamo tutti rinunciato a disfarlo, anzi, finché è possibile, andiamo tutti, fratelli e sorelle con le rispettive famiglie a garantire la nascita del Bambino in quel presepe. Vale la pena descriverlo. Gli oggetti: una capasa (giara) di argilla rotta, senza fondo, in cui alloggia il nucleo principale della Natività; essa è riversa con l’ampio cratere rivolto sul fianco da cui pende una carta crespa bianca a simboleggiare lo scorrere dell’acqua, un’acqua rigeneratrice che ricorda quella del fiume Giordano con cui Gesù fu battezzato e ufficialmente mostrato agli uomini come manifestazione della S.ma Trinità; al lato lu mmili (fiasco di terracotta), rivolto pure all’ingiù, dalla cui bocca fuoriesce la carta crespa bianca che simboleggia l’acqua; il tutto adagiato su un telaio, quello usato dalla nonna per far scorrere il setaccio pieno di farina…..

 
Acqua e farina senza lievito, pane azzimo consumato dagli ebrei in attesa della rapida fuga dall’Egitto: pane azzimo per il passaggio dal peccato originale alla Grazia, riscatto di Dio Verbo fatto Carne… Quanti richiami biblici sollecita questo presepe, pur nella sua semplicità!...

 
Io, poi, non sono costante nell’allestire il presepe. Lascio a bella posta l’incarico a mia figlia nell’intento di sollecitarne la fantasia. Quando lo faccio provo a mettermi in discussione elaborando scenografie azzardate, come potete vedere nelle foto in catalogo. Uso però i pupi del nonno di cui, come potete immaginare, sono molto affezionato.

 
Vi sono però altri parenti che fanno presepi altrettanto interessanti e questa rubrica del sito di famiglia aspetta di essere arricchita da tante altre segnalazioni.

 
La tradizione va rivissuta reinventandola nella giusta dose. Sei d’accordo?


 
 
Torna ai contenuti